Abbi un vetro grande come un mezzo foglio reale, e quello ferma bene dinanzi agli occhi tuoi, cioè tra l’occhio e la cosa che tu vuoi ritrarre; poi poniti lontano con l’occhio al detto vetro due terzi di braccio, e ferma la testa con un istrumento, in modo che tu non possa muoverla punto. Dipoi serra, o copriti un occhio, e col pennello o con il lapis a matite segna sul vetro ciò che di là appare.

Immaginiamo che, dopo aver seguito le indicazioni di Leonardo sulla riproduzione di un sito, riuscissimo a sfilare il vetro su cui abbiamo appena disegnato e a lasciare sospeso il velo del disegno che abbiamo appena steso. Forse ci troveremmo a guardare qualcosa di molto simile ai telai delle opere che Andrea Pacioni ha realizzato tra il 2017 e il 2020, stendendo l’emulsione su un vetro temperato e sollevandola dal supporto dopo averla impressionata. 

Un’immagine visibile da entrambi i lati della sottilissima superficie che si libra in una “cornice-finestra”, tenuta da sottili fili di acciaio e che ci interroga sulla relazione tra la rappresentazione – che nella sua tensione verso la perfezione sembra puntare ad una consistenza diafana – e il suo supporto. Quanto questa operazione ci avvicina all’essenza dell’immagine? Priva del sostegno materiale, l’immagine si trasforma veramente in un puro fenomeno ottico? Rimane qualcosa di artefatto anche in una rappresentazione mimetica di spessore impalpabile? 

Siamo probabilmente in uno di quei casi in cui la risposta non è nella domanda ma è la domanda. Se l’opera spinge chi la guarda a porsi degli interrogativi rispetto non solo a ciò che è rappresentato, ma anche alle modalità in cui si attua la rappresentazione stessa, non siamo ancora al punto in cui l’imitazione diventa tutt’uno con la cosa imitata. Sempre ammesso che raggiungere questa sovrapposizione sia effettivamente possibile, e che il suo raggiungimento – che coinciderebbe con un punto di non ritorno per l’Arte – sia un evento interessante ed auspicabile. 

Insomma, per quanto sottile possa essere, una rappresentazione di un cipresso  contiene sempre qualcosa di diverso da quanto ci sia nel cipresso stesso. Nella sua sintesi di poiesis e tekne, di forza concettuale e resa estetica, l’opera di Pacioni non sembra un tentativo di avvicinarsi al limite quanto un racconto sul gioco e le sue poste. Ed è interessante che questo racconto si sviluppi nel territorio di una disciplina che nel rapporto indicale con la realtà trova da sempre il suo fondamento tecnico e ontologico.

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