“Il nome del noema della fotografia sarà quindi ‘è stato’”. Suonano ancora più cupe e lapidarie le parole di Roland Barthes se ricordate mentre si guarda la fotografia di qualcuno – lui lo chiamava lo Spectrum – per il quale il numero dei ritratti ha appena raggiunto la cifra non più modificabile. 

Per la maggior parte di noi Gianluca Vialli “è stato” un calciatore professionista, attivo nei due ultimi decenni del secolo scorso. Qualche settimana fa, agli inizi del mese di gennaio, le pagine dei giornali e gli schermi dei TG si sono riempiti di suoi ritratti. La maggior parte lo riprendevano da giovane, mentre correva nella maglietta larga che oggi non si porta più e che dava alla corsa dei calciatori alla fine del XX secolo  un aspetto di elastica e vaporosa eleganza. 

Difficile trovare tra tante immagini una più decontestualizzata di quella che lanciava uno sguardo profondo e sereno dalla prima pagina di un diffusissimo quotidiano nazionale, e che Fabio Lovino realizzò qualche anno dopo il ritiro di Vialli dall’attività agonistica. Oggi non è un problema; bastano la sagoma del capo e la forma degli occhi per individuare il soggetto. Ma, tra un po’ di tempo, quando un ragazzino nato il 6 gennaio di quest’anno guarderà per la prima volta questa foto, avrà bisogno di chiedere a suo padre chi sia stato quest’uomo che lo attira con quegli occhi magnetici e tranquilli, e lo invita ad abbandonarsi con una benevola fiducia alla vertigine che – come dice Armando Gonzàles Torres – si genera dall’abisso presente in ogni volto.

Ecco, nella dimensione quasi tattile data a questa vertigine si dispiega la forza di questa fotografia paradigmatica. A causa sua al ragazzino non basterà un gol da cineteca per soddisfare la propria curiosità; osservando quello sguardo che ti invita a fissarlo intensamente anche lui proverà una strana nostalgia per qualcosa che non è stato, per il suono di una voce che, da dietro quelle mani, sta per pronunciare una parola che avremo per sempre la voglia di ascoltare.

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