Esiste una parola per indicare quel misto di stupore, angoscia e fascinazione che ci assale quando la nostra esperienza del mondo si spinge fino alle sue estreme capacità di dargli un’organizzazione ed un senso, e questa parola è sublime. Su quel sentimento di “orrore dilettevole” – come lo chiamava Edmund Burke – pagine a loro tempo definitive si trovano nella Critica della Facoltà di Giudizio di Immanuel Kant; entrambi i tipi di sublime che egli individuava – il sublime matematico e quello dinamico – erano connessi a fenomeni naturali. Evidentemente fino ad allora l’essere umano non era riuscito a generare qualcosa di paragonabile ad un’eruzione vulcanica o all’immensa vastità del cielo stellato. 

Ma nei due secoli e un terzo che sono passati dalla tassonomia kantiana, la nostra civiltà è riuscita a creare un suo proprio genere di sublime, stabile e replicabile, che si potrebbe chiamare sublime artificiale. La novità non è di poco conto, in primo luogo per l’impatto che questo nuovo sublime ha sulla capacità del pianeta di continuare a produrre il proprio, ma anche per le conseguenze sul piano della rappresentazione stessa.

Per il contemporaneo di Kant, lo strumento necessario, forse l’unico, per dare una forma sensibile al sublime era l’ellissi: la siepe di Leopardi, lo sfumato di Caspar David Friedrich evocavano un ”infinito indefinito” nello spazio finito di una poesia o di un dipinto. Per il sublime che porta il nostro marchio di fabbrica è chiaro che occorre operare su un diverso registro. Sì, perché tutto ciò che c’è nell’immensa distesa della discarica di Chimalhuacán a Città del Messico – ogni pezzo di plastica, ogni scatola di latta, ogni carcassa di televisore o computer, persino il cane che annusa e lacera gli shopper – è stato portato là da mano umana. Ed allora la sua rappresentazione deve dare all’occhio umano la speculare possibilità – o illusione – di poter enumerare ogni singolo elemento, in una sorta di ipervisione che metta in grado di esibire un dominio su questa artificialità straripante e scongiurare la sensazione di essere sul punto di perdere il controllo su ciò che noi stessi abbiamo creato e siamo incapaci di contenere.

Per questa ragione, le immagini di Andreas Gursky si guadagnano attraverso strade tortuose un aggettivo che i manuali di storia della fotografia di solito negano agli esponenti della Scuola di Düsseldorf: poetiche. Una poesia che passa per l’accumulazione inesauribile, in una dilagante “vertigine della lista” che nega al nostro sublime una proprietà che Kant riteneva strutturale a questo sentimento: il distacco fisico. A differenza della tempesta perfetta da ammirare stando al sicuro sulla scogliera, i rifiuti di Chimalhuacán arrivano fino alla posizione dell’osservatore e – forse – ancora oltre. Parafrasando Borges si potrebbe dire che questo sublime “ci circonda/come la corda la gola, il mare chi sprofonda”. E quanto dilettevole sia questo orrore è tutto ancora da capire; ma è più che probabile che tra un po’ saremo in grado di scoprirlo.

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