L’uomo è, come si dice, un animale semiotico. Tutto ciò che osserva, tocca, annusa, ascolta o assaggia tende ad essere considerato un riferimento a qualcos’altro, assente alla percezione e da essa richiamato allo sguardo della mente. In altri termini ci consideriamo circondati da “testi”, vale a dire entità che comunicano, anche se non necessariamente create con quello scopo. Anzi, una prima distinzione che si può operare in questo magma di significanti potenziali è proprio tra i sistemi di segni “intenzionali” e quelli “involontari” (artificiali o naturali che siano). Categorie chiaramente distinte, ma non indipendenti; tra i testi intenzionali esistono quelli (li si può chiamare “rappresentazionali”) che intenzionalmente riproducono testi non intenzionali. La fotografia documentaria è tra questi; e gran parte delle discussioni intorno alla sua dignità autoriale – e quindi creativa e, qualsiasi cosa significhi, artistica – ruotano intorno alla esistenza e alla natura dei significati che la fotografia è in grado di aggiungere a quelli offerti dall’oggetto inquadrato.

Questa immagine di Francesco Radino offre sull’argomento qualche interessante spunto di riflessione. Se letta come una rappresentazione dell’opposizione tra natura e cultura, la fotografia ha un impianto classico, nel senso che la sua struttura ha un configurazione che si adatta funzionalmente al significato e contribuisce a renderlo chiaro a chi guarda. Qui la dialettica si sviluppa sia in senso trasversale – con la casa, la lambretta e le piante addomesticate sulla sinistra che si oppongono alla rigogliosa vegetazione lacustre sul lato opposto – sia in senso longitudinale con la striscia d’asfalto che termina nello specchio del lago a sua volta delimitato dalle montagne sullo sfondo.

Al centro di questo quadrilatero di elementi in opposizione c’è lui, l’Uomo. Appoggiato sull’asfalto – materiale simbolo dell’antropizzazione del mondo – sembra escluso da entrambi i contesti. E se manufatti culturali (la ringhiera, il muro sulla destra) lo dividono dalla natura, la cultura non mostra nei suoi confronti un atteggiamento più inclusivo, visto che la casa sulla destra – altra ipostasi dell’intervento antropico sull’ambiente – gli impedisce l’accesso con le stecche della saracinesca chiusa. Ecco che il passo congelato dal fotogramma si presenta come un segno di incertezza, di dubbio, suggerito anche dal goffo abbraccio dell’uomo a metà strada tra il gesto virile di offerta protezione e quello infantile della ricerca di un sostegno. Alla fine tra i due è lei che sembra guidare la coppia, in un cammino che in ogni caso ha di fronte a sé solo pochi passi.

Posto che la lettura appena esposta abbia una sua validità, la domanda che ci riporta alle considerazioni iniziali è: c’è una parte di questa analisi che si può ritenere frutto della ripresa? Oppure tutto ciò che questo testo intenzionale suggerisce poteva essere ricavato dal testo non intenzionale che esso riproduce? La domanda merita di essere approfondita per conto suo, ma anche nel caso si pensasse darle una risposta negativa, bisogna ammettere che buona parte della lettura poggia sull’equilibrio classico della composizione: sarebbe bastato un attimo e le due figure avrebbero perso la loro collocazione al centro della scena e forse non avrebbero così intensamente suggerito la relazione problematica dell’Uomo nello scenario antropico che egli stesso ha creato. Un attimo, un battito di ciglia che il fotografo ha intercettato e catturato per sempre e che, nella sua istantaneità, avrebbe corso il rischio di fuggire inosservato. Magari la creazione della fotografia documentaria è tutta qua, nella trasformazione di un pezzo di realtà in un testo stabile, che rende visibile a tutti l’attimo in cui il mondo che ci circonda ci ha svelato una particella del suo senso. Magari è tutta qua: ma in ogni caso non è poco.

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