Quando lavoro sulle mie fotografie ho davanti tre schermi. Quello “buono” (tecnicamente parlando è quello calibrato e con il gamut più ampio) ospita le applicazioni di sviluppo del negativo digitale e di fotoritocco. Degli altri due, uno lo tengo per il catalogo e l’altro è riservato alle mail o al browser. Capita che la stessa immagine che sto elaborando finisca per rimbalzare su tutti questi monitor, a cui – dopo l’eventuale pubblicazione online – spesso si aggiunge anche quello dello smartphone; in ogni schermo l’immagine appare più o meno diversa, al punto da far sorgere a me stesso un dubbio su quale sia la vera foto. Ha senso riferirsi all’autorevolezza del monitor fotografico sul quale l’ho preparata (magari citando i miei parametri di profilazione), se quasi nessuno di coloro che vedranno questa immagine useranno uno schermo del genere?


Questa autoreferenziale reiterazione dell’ovvio travestita da riflessione ontologica mi porta a un’altra domanda, che probabilmente per me è fuori luogo, ma non lo è per tutti quelli che – in maniera più o meno riconosciuta – usano la fotografia per fare “arte”.
Qui occorrerebbe mettersi prima d’accordo su cosa si intende con l’espressione “opera d’arte”; per quello che mi riguarda credo che una delle sue caratteristiche essenziali sia quella di essere un “veicolo semantico opaco”. Vale a dire è un artefatto portatore di un messaggio che non può essere asportato dal suo supporto senza che se ne perda una parte più o meno importante. In altre parole il significato di un’opera d’arte le sta attaccato addosso come una di quelle pellicole adesive che non riusciamo a separare senza romperle dagli oggetti intorno cui sono avvolte. Parafrasando Leon Battista Alberti si potrebbe dire che l’opera d’arte è un manufatto nel quale “non vi si possa aggiungere o diminuire, o mutare alcuna cosa che non vi stesse peggio”. Dove in questo caso con “meglio” e “peggio” si indica la distanza tra l’opera stessa e le intenzioni comunicative dell’autore.


Per quel che riguarda le fotografie direi che accettare questa premessa porta a due conseguenze: o per una foto parametri come i colori o la luminosità possono essere considerati accessori per il suo contenuto artistico, oppure la fotografia proposta tramite i dispositivi retroilluminati non può essere arte. Tra le due ciascuno può scegliere l’opzione che ritiene più giusta; personalmente ritengo che giudicare la luce non essenziale per l’espressione del contenuto di una fotografia abbia implicazioni profonde sul concetto stesso di “fotografia”, senza stare qui a riverniciare per l’ennesima volta l’etimo del termine.


Magari si può obiettare che questa sia una posizione troppo intransigente e che “grosso modo” il connotato artistico di una fotografia sia attingibile anche attraverso la sua riproduzione elettronica. Personalmente resto dell’idea che Dio e il Demonio si danno battaglia nei dettagli e che nel caso si parli di Arte nulla debba essere trascurato.


Del resto tutti sappiamo che la Gioconda è quel pezzo di legno su cui Leonardo ha dipinto una donna e non una delle migliaia di riproduzioni che si vedono online. La fotografia rischia invece di essere un dipinto senza tela e senza oli o acrilici, schiacciata su infiniti rettangoli di pixel, la maggior parte dei quali non riescono a portare con sé il senso dell’opera.


Per uscire da questa assurdo budello bisogna andare alla ricerca della “noumeno fotografico” nascosto nella nebulosa delle sue “fenomeniche riproduzioni”. E questo nocciolo della fotografia, il veicolo semantico opaco cui il messaggio sta appiccicato non può che essere la stampa. Credo che solo alla stampa delle fotografie che si intendono candidare come oggetti d’arte possa essere affidata la loro “opacità”. Stampare una foto non significa farne un’opera d’arte; non stamparla significa interrompere nel momento più importante lo sforzo perché essa provi a diventarlo.

2 pensiero su “Dove sta la fotografia?”
  1. Interessante considerazione che apre vecchie e nuove questioni. Comunque riflettevo che anche la stampa di una fotografia analogica ha una sua interpretazione diversa per ogni stampatore e addirittura per ogni copia stampata dallo stesso stampatore. Da questo punto di vista la fotografia è abbastanza vicina a quello che succede con l’arte performativa. Una sinfonia è la stessa “opera d’arte” se eseguita da orchestre o direttori diversi? E’ noto che la durata delle variazioni Goldberg incise per la Columbia (oggi nel catalogo Sony) da Glenn Gould all’inizio della carriera (1955) è molto diversa dall’edizione del ’81 (38’34” la prima contro i 51’18” della seconda).
    Certo, nella fotografia digitale la differenza è principalmente nel mezzo tecnico, ma in quella analogica l’interpretazione è data dallo stampatore. Inoltre la stampa può non essere unica. Certo, rispetto alla musica, la fruizione della fotografia avviene in un momento successivo rispetto alla sua realizzazione. Che ne pensi?

    1. Naturalmente qui parliamo del processo di produzione fotografico che oggi viene definito “fine-art”, nel quale ogni singola attività, dalla ideazione alla produzione, è (o meglio: dovrebbe essere) sotto il massimo controllo possibile da parte dell’autore. Quello di Ansel Adams è sicuramente un buon esempio. Bisogna quindi pensare che l’oggetto frutto di questo processo – la stampa – rispecchi la visione che in quel momento l’autore ha del suo lavoro. Di sicuro questa visione può cambiare e cambia nel tempo: “Moonrise, Hernandez, New Mexico” di Adams (ancora lui!) è esemplare in questo senso. C’è poi da dire che dal momento in cui la stampa viene licenziata si attiva un percorso in cui l’autore scompare; la stampa finisce nelle mani di collezionisti la cui percezione dei toni e dei colori può essere diversa da chi l’ha prodotta, che la osservano in condizioni di luce diverse da quelle che l’autore avrebbe considerato ottimali, e che l’oggetto stesso si modifica nel tempo in diversa maniera a seconda del modo in cui è conservato. Tutte questioni che riguardano fenomeni ineliminabili della vicenda umana e tutte le nostre considerazioni devono considerarsi al loro netto, a meno di non voler approdare ad un relativismo che, sia pur legittimo, mette a massa ogni ragionamento su questioni del genere.
      D’altra parte, pur nell’alea della ricezione, si può sempre dire che la stampa fotografica sia un oggetto dotato di proprietà misurabili che, come detto, possono essere interpretate in maniera diversa dagli apparati sensoriali degli spectator; naturalmente anche le caratteristiche che incidono sulla resa a monitor sono misurabili, solo che l’autore che pubblica su instagram non sa quanto valgano queste proprietà per il device di chi guarderà l’immagine. Parlandone in termini di fotografia argentica, è come se la produzione più attenta si concludesse affidando la stampa a milioni di stampatori di cui non si conosce abilità tecnica e dotazione strumentale.
      Riguardo al parallelo tra negativo (di qualsiasi tipo) e partitura musicale, pur trovandolo estremamente evocativo ed efficace per molti aspetti, credo sia abbastanza inesatto per queste questioni. Sono dalla parte di Nelson Goodman che definiva la fotografia un’arte autografica (a oggetto multiplo) e la musica (e le arti performative in genere) un’arte allografica, cioè un’arte per la quale non ha senso chiedersi se una istanza di un suo prodotto è vera o falsa. Il tuo esempio parla di Glenn Gould, che è uno stampatore; l’autore, nel caso che citi J. S. Bach, è materialmente impossibilitato (e lo era anche da vivo) a sancire l’autenticità di una interpretazione delle Goldberg a meno che non si fosse trattato di una a cui egli avesse potuto assistere di persona (il che comprende il caso in cui fosse egli stesso l’interprete).
      Grazie mille per il messaggio e per l’apprezzamento.
      A presto.
      Giovanni.

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