Pare che sia il futuro per l’arte digitale; ma lo sarà anche per la fotografia?

Derivazione dei meccanismi di anticontraffazione nativi della blockchain (chi non sapesse di cosa si tratta ne troverà nel seguito una sommaria descrizione, sufficiente per seguire le considerazioni che seguiranno), gli NFT (Non-Fungible Token) ne rappresentano un cambio di paradigma copernicano, dato che il loro utilizzo si estende da oggetti per loro natura “fungibili” (termine che qui sta per “intercambiabili“) quale per antonomasia è il denaro, a entità che all’opposto sono appunto “non-fungibili“, quindi uniche. La simmetria concettuale non è però completa: mentre le criptovalute sono realizzazioni di un concetto abbastanza noto e diffuso (il denaro), per gli NFT trovare il corrispettivo fuori dal criptoverso non è altrettanto immediato. 

Più che descrivere nel dettaglio il mondo delle criptovalute è degli NFT – in fondo alla pagina c’è una lista con alcuni video che forniscono descrizioni introduttive sull’argomento – mi interessa qui parlare delle modalità con cui il mondo della fotografia può interagire con la tecnologia della blockchain e, per converso, cosa gli NFT possono rappresentare per la fotografia. Mi concentrerò quindi  sugli aspetti “funzionali” legati all’interazione tra il mondo della blockchain e quello della fotografia.

Vedremo che la compatibilità tra questi due contesti è tutt’altro che piena ed automatica, e che le procedure che la blockchain impone alla circolazione delle opere fotografiche, così come ai rapporti tra esse, i collezionisti e, soprattutto, gli autori possono generare più di una perplessità.

Più che le questioni tecniche, sono i portati di pratiche e tradizioni che la fotografia reca con sé a costituire una remora all’apertura verso questa nuova tecnologia. Ciò è tanto più vero nel caso della fotografia italiana, che ha speso più tempo a cercare le ragioni per cui il digitale debba essere considerata come una accezione dialettale e tutto sommato secondario della fotografia “argentica” , che a focalizzarsi sulla peculiarità del paradigma numerico. Senza tenere in conto l’inerzia della coda lunga del suo mai risolto rapporto di sudditanza con la pittura. 

Partiamo dalla vulgata diffusa quanto imprecisa definisce uno NFT come un “certificato di autenticità” dell’opera digitale. Una definizione che ha un pregio e un difetto. Il primo è la sua capacità tranquillizzante per gli autori, da sempre alla ricerca di una soluzione per avere il controllo assoluto della circolazione dei loro lavori digitali; il difetto è che si tratta di una definizione inesatta

Per capire il perché diamo un veloce sguardo alle caratteristiche tecniche degli NFT. Nella sua sostanza un NFT è una scheda che contiene un certo numero di informazioni. Questa scheda è custodita in una sorta di cassaforte informatica costituita da una rete di calcolatori che prende il nome, appunto, di blockchain. Questi elaboratori condividono la “custodia” di questa scheda e ne controllano le caratteristiche attraverso una serie di algoritmi che rendono praticamente impossibile la sua contraffazione o duplicazione; tutto questo, tra l’altro, a spese di una notevole quantità di energia. Tra le varie informazioni che questa scheda riporta ci sono il nome del creatore, quello del possessore corrente e di quelli che lo hanno preceduto, la storia delle transazioni che l’hanno interessata e, ovviamente il suo prezzo. Nulla di creativo o artistico quindi. Tra gli altri contenuti nello NFT uno ci interessa da vicino: l’indirizzo di un file su un sistema di server esterno alla blockchain chiamato IFPS (InterPlanetary File System). Il file in questione è quello della fotografia in formato jpg o tiff o in qualsiasi formato si ritenga di volerlo mettere a disposizione nel criptoverso.  Il punto da tenere presente è che questo file che è stato copiato dall’autore all’atto della creazione dello NFT (fase che in gergo si chiama minting) è esattamente lo stesso che il fotografo ha ancora sul suo hard disk

La sicurezza del protocollo IFPS è argomento di discussione, ma ciò che qui importa è che il possessore (e a volte anche un semplice visitatore della piattaforma, come nel caso di OpenSea) può scaricare il file1. E qui cominciano le questioni spinose: il file che il proprietario ha ora sul suo hard disk è esattamente lo stesso di quello che è presente sullo IFPS che a sua volta è identico a quello che l’autore ha sul suo hard disk. A questo punto nulla vieta al proprietario di copiare ancora il file, magari per metterlo come salvaschermo su tutti i suoi dispositivi. Ma non basta. Se il proprietario decide di vendere il suo NFT, le copie del file che lui aveva scaricato restano sui suoi dispositivi e lui può continuare a trasferirli e  copiarli magari mentre il nuovo proprietario sta iniziando a fare la stessa cosa. 

Supponiamo che a questo punto lo stesso autore decida di regalare una copia del suo file ad un suo amico. Una copia in più del file comincia a circolare. Anche questa nuova copia è del tutto identica alle precedenti; questo accade perché nessuno di questi file ha nel proprio interno un riferimento allo NFT, quelli scaricati dai proprietari così come quello che l’autore ha copiato per il suo amico. 

A questo punto è chiaro che il paragone tra NFT e certificato di autenticità non può reggere. E dal punto di vista strutturale il nodo è proprio nella assenza nel file dell’immagine di un qualsiasi riferimento allo NFT. 

Riconsideriamo cosa accade quando si vende una stampa fisica in edizione limitata con certificato di autenticità. Il certificato in questione ha una serie di metadati che descrivono la stampa (ad esempio miniatura e tiratura) e la stampa (ed è qui la differenza sostanziale) ha su di sé un riferimento al certificato, ad esempio attraverso il numero di tiratura. Nel caso si vogliano fare le cose per bene ci si procura un certificato come quelli di Hahnemühle che hanno con sé un bollino olografico con numero identificativo univoco che si incolla alla stampa e crea un “collegamento inverso” al certificato. L’autore può segnarsi tutti i codici delle opere vendute e fornire un servizio di tutela degli originali per sé e per i compratori. Un  meccanismo simile non è disponibile per gli NFT. In altri termini il file digitale non viene marcato al suo interno con un identificativo che viene inserito tra i metadati del token e comunicato all’autore all’atto della creazione del token e della sua associazione all’opera digitale. Se tale marcatura fosse realizzata l’autore potrebbe facilmente sapere se un esemplare del suo file corrisponde alla copia associata al NFT che ha venduto. Anche in caso di alterazione di questa informazione nel file tramite hackeraggio, la mancata corrispondenza con le copie vendute sarebbe facilmente verificabile. Anche se con l’introduzione dell’IFPS le cose a proposito della tutela dei file sono leggermente migliorate, comunque il meccanismo offre poche tutele all’autore. 

Nei video che affrontano la questione (ad esempio: NFT 101 for Photographers: Part 1) si obietta che chiunque va al Louvre a vedere la Gioconda può poi passare al bookshop e comprare un poster che può mettere in casa senza che per questo si possa dire che egli sia un possessore della Monna Lisa. L’argomentazione è così debole da non meritare neppure un’analisi. Ma anche nel caso che invece di riproduzioni fotoserigrafiche si stesse parlando di copie realmente “indiscernibili” (come le definirebbe Arthur Danto) staremmo parlando di una somiglianza di grado comunque  inferiore a quello che un file digitale ha con una sua qualsiasi copia. La stessa differenza che passa tra ’“l’indiscernibiltà” e l’identità2.

Quindi uno NFT per un file digitale non è un “certificato di autenticità”3 ma un tipo particolare di “certificato di proprietà”, capace di distinguere il proprietario di un file dai suoi possessori, nel senso che tra coloro che posseggono di copie identiche di un’opera digitale, solo alcuni hanno il diritto di essere considerati proprietari, vale a dire quelli che hanno nella loro disponibilità il gettone. Sempre che si vendano esclusivamente copie del file digitale tramite NFT. 

Quindi, ritornando al singolare esempio della Gioconda, secondo la filosofia NFT ciò che importa non è tanto che ci siano infinite Monna Lisa in circolazione, quanto. Il fatto che il Louvre sia il solo proprietario accreditato. 

Non è escluso che queste considerazioni portino qualche fotografo a pensare che la tecnologia degli NFT non faccia al caso della fotografia. Magari è vero, ma prima di liquidare la faccenda vale la pena di riflettere quali saranno (o potrebbero essere) le conseguenze di questo cambio di paradigma per il nostro modo di concepire la fotografia autoriale. 

E a questo che sarà dedicata la seconda parte di questo articolo.


Per chi desidera approfondire l’argomento segnalo alcuni video:

Qui si parla esplicitamente della protezione delle opere e si fa il paragone tra Guernica di Picasso e una sua fotografia.
In questo video i pareri sono meno entuisiasti.
Per chi conosce l’inglese questo è un contenuto molto interessante che spiega tra l’altro le (sconcertanti) dinamiche economiche del fenomeno.
  1. In realtà esistono piattaforme che impediscono il download, come ad esempio la NBA Top Shots, che vende “figurine digitali” dei momenti topici delle partite di basket del campionato professionistico americano, ma questo modifica solo parzialmente la questione della circolazione delle copie dei file digitali[]
  2. In realtà nel pure in caso di due copie “identiche” – del resto facilmente realizzabili – di un file digitale si può parlare di identità ontologica, in quanto le due copie risiedono in posizioni fisiche diverse. Di fatto però si tratta di entità “essenzialmente” identiche, in quanto mostrano identità in tutte le verifiche a cui possono essere sottoposte.[]
  3. Questa funzione gli NFT riescono paradossalmente ad assolverla meglio nel caso di opere fisiche, che sono più facilmente “contromarcabili” con riferimenti ai token della blockchain[]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *