Chissà come vedremmo questa immagine, cosa vi cercheremmo e cosa vi troveremmo, se non avessimo mai visto un quadro di Caravaggio, di Velasquez o di Rembrandt. Se la cultura è ciò che mettiamo tra noi e il mondo, il suo organizzarsi per paradigmi finisce inevitabilmente per strutturare la nostra idea di realtà. E, ovviamente, il versante ottico del nostro sapere condiviso non si sottrae al ruolo; la cultura visuale di una civiltà in un determinato periodo storico si può sfogliare nelle pagine di un catalogo di immagini esemplari che finiscono per rappresentare il suo modo di vedere il mondo.

Nel caso della fotografia, questa specie di membrana si pone in un interessante quanto problematico dialogo con la presunta vocazione del medium di restituire l’immediata fragranza delle cose. La riproduzione della realtà finisce sempre per riprodurre in parte il nostro modo di percepirla; anzi, al di là della sua costruzione tecnica, la differenza tra un’immagine scontata e una incomprensibile sta in parte proprio nel grado di opacità con cui si realizza il riferimento al canone.

In questa immagine di Georges Merillon l’impianto teatrale, le quinte ingoiate dall’ombra, le diagonali formate dalle teste e dalle mani delle donne che convergono verso il giovane morto, elementi responsabili dell’empatia delle immagini di sintesi del Merisi, minacciano la carica emotiva dell’inquadratura, proprio mentre ne rafforzano le qualità estetiche.

La sensazione di non essere posti di fronte non al dolore ma ad una sua rappresentazione è tanto forte che si rischia di restare a riflettere, più che sul portato di disperazione e sofferenza, sulle proprietà retoriche del fotogramma.

Al punto di accorgersi che riferimenti più arcaici ci sono finiti dentro, come la moltiplicazione dei personaggi attraverso la rotazione di un modulo, come qui accade nel caso delle tre prefiche che portano il fazzoletto al viso con la mano destra e come nella storia dell’arte troviamo in esempi protorinascimentali quali la Leggenda di Piero della Francesca o le tavole del Perugino e del primo Raffaello.

Quanto e in quali condizioni questo accumulo di riferimenti lasci passare l’immane tragedia del popolo kosovaro e quella ancor più universale di una madre che si ritrova a piangere il proprio figlio, è una questione che chiama in causa non solo la riuscita di una immagine ma, forse, il modo in cui un intero genere fotografico è convocato a interpretare il suo ruolo.

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