Tertium non datur. Sarà questione di abitudine millenaria, ma non è semplice dire se la logica aristotelica parli del mondo o di una sua rappresentazione. Di sicuro esistono rappresentazioni che questa logica la seguono a modo loro, quando non la contraddicono, anche se spesso le loro deroghe sfuggono ai nostri occhi, condizionati – o, forse sarebbe il caso di dire, rassicurati – da una visione del mondo che ci garantisce che le cose o sono o non sono.

Prendiamo il caso delle immagini, e ancor più della fotografia. E prendiamo la proprietà a cui sono più interessate, vale a dire la visibilità. Chiunque potrebbe dire senza troppe incertezze che ciò che nella fotografia si vede è visibile. Ma siamo sicuri che l’unico modo per negare la visibilità di un soggetto sia escluderlo dal fotogramma? O magari c’è la possibilità che l’immagine riesca a di negare ciò che mette in scena? Una strada potrebbe ad esempio essere la capacità di far coesistere diversi punti di vista, anche in conflitto tra loro, all’interno di uno stesso enunciato planare. L’immagine di Adriano Nicoletti realizza questa tensione in maniera esemplare, soprattutto perché utilizza a modo suo i dispositivi – osservatori delegati, indicatori, linee di convergenza – che la semiotica visiva ha allineato nelle rastrelliere del suo arsenale.

Il discorso parte dalla negazione di uno sguardo, quello di Giovanni Paolo II, che il margine della porta esclude in maniera quasi violenta, conficcandosi nelle orbite e privandole della visione. Per quanto si tratti di un ritratto, vale a dire di un’immagine nell’immagine e in quanto tale depotenziata nel suo contenuto rappresentazionale, questa cecità implacabile attribuisce alla posizione della porta che ne è la causa una fortissima valenza, a dispetto della sua presenza marginale nel fotogramma. E la porta utilizza a sua volta questo peso per definire – oltre il margine destro dell’immagine – un punto di vista cieco, negato, che è alternativo e forse prioritario rispetto a quello a cui in quanto lettori siamo allineati.

Ecco che quindi la scena è tutta nascosta dalla porta e i suoi attori di carta, gesso e – qualcuno dirà – spirito, la riempiono della malinconia dell’isolamento, accentuata dalla dispersione degli sguardi, nessuno dei quali ne incrocia un altro. Così in questo angolo nascosto di quello che sembrerebbe un reparto di ospedale – luogo della solitudine, della debolezza e della vergogna, come lo dipingeva Goffredo Parisi in uno dei suoi Sillabari – sottratto agli occhi di tutti si celebra un silenzioso dramma della solitudine. Un dramma a cui ognuno può dare i significati che gli suggerisce la propria sensibilità, come anche alla catena luminosa che, mentre trasforma l’angolo di piastrelle in un cielo stellato in cattività, serra la Vergine quasi ad imprigionarla in una corona di spine, rievocando in maniera inedita e forse inconsapevole la tradizione di una iconografia che da sempre accompagna la figura di Maria con i simboli della passione del Cristo.

Riferimenti

  • M. G. Dondero – I Linguaggi dell’immagine – Meltemi, Roma, 2020
  • A. Nicoletti – Approdo – 2020

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