Sospetto che l’opera fotografica di Bernd and Hilla Becher sia conosciuta ed ammirata più di quanto non sia semplicemente amata. Magari qualche buona ragione c’è: la tassonomica bulimia, il teutonico rigore seriale con cui i due coniugi fotografi raccontarono l’archeologia del (loro) futuro prossimo sono elementi ideali per suscitare deferenza, ma sembrano anche perfetti antidoti al trasporto empatico.

La geniale elaborazione di Idris Khan – una “stampa per collezionisti dei Becher con pareti piccole”, la definisce un commento sul sito The Online Photographer – apre uno spiraglio sulla strada che conduce al fascino riposto delle ipnotiche Tipologie becheriane; dalla sovrapposizione dei gasometri sferici (ne esiste anche una dedicata a quelli cilindrici) emerge una sorta di vibrazione che confonde il bianco e nero calligrafico degli originali e mette sotto lo sguardo dell’osservatore ciò che egli dovrebbe riuscire ad evocare nella osservazione diacronica dei singoli esemplari: l’oscillazione minima, ineliminabile, quella che affinando lo sguardo possiamo scorgere nelle cose identiche ad una prima occhiata; tremolii che hanno a che fare – magari ad un puro livello simbolico – con la forza del mondo.

Ritornano alle orecchie i pitagorici Canoni bachiani sulle Prime Otto Note del Basso dell’Aria delle Variazioni Goldberg, o le implacabili composizioni del minimalismo musicale degli esordi, quello Terry Reily e del primo Steve Reich. Musica in cui il processo, la causa, si svela immediatamente per lasciare la coscienza si smarrisca al cospetto diretto gli effetti; qui, nel mondo delle Tipologie, la replica seriale delle foto – il processo – dispone i soggetti sullo sfondo e lascia emergere le minime, vibratili, differenze come frutto di una ipervisione che dischiude alla mente vertiginose sensazioni e, magari, un lieve, lisergico senso di ebbrezza.

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