Tra il ritenere che la forma sia una proprietà della realtà e il pensare che essa sia un espediente della percezione necessario per organizzare il rapporto dell’uomo con il mondo, passa la differenza che corre tra Classicismo e Barocco, che già Heinrich Wölfflin individuava come le due sponde tra cui naviga la nostra esperienza estetica.

Anima spigolosa e intransigente, affascinata dal gioco tra ombra e luce, William Eugene Smith passò gran parte della sua vita a contatto con la parte meno comprensibile e organicamente razionalizzabile dell’esistenza umana. Eppure la sua fotografia sembra esplorare il luogo mitico in cui i due poli tra cui oscilla l’estetica umana si toccano.

Scene drammatiche o fortemente dinamiche come questa del ’41 sono riprese con un rigore formale che sembra spingersi fino ad incidere la sostanza della scena rappresentata. Il cane in volo appare sospeso ad un punto intrinsecamente diverso da tutti gli altri della sua traiettoria, come se le sue fauci fossero aggrappate ad un filo invisibile ma infallibilmente reale teso tra i due uomini.

Solo un istante, fissato per sempre, a regalare al fotografo e allo spettatore la sensazione – o la speranza – che nella realtà del mondo ci sia una forma, e che in quella degli uomini ci sia una ragione.

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