Mario Schifano, Something else, smalto e collage su tela, cm 40×40, 1961 – Elaborazione grafica di Giovanni Cappiello

Otto quadrati rossi, tra loro somiglianti al punto da essere indistinguibili, dipinti su altrettanto indistinguibili tele: di questi, sei sono opere d’arte di autori diversi e di diverso titolo; una è una tela preparata nientemeno che da Giorgione per un’opera mai realizzata; uno è un semplice quadrato rosso senza nessuna velleità artistica; l’ultima, infine, è una imitazione del precedente, opera del giovane artista J.

Sono gli oggetti protagonisti del pirotecnico attacco de La Trasfigurazione del Banale, l’arguta meditazione sull’arte di Arthur C. Danto, incardinata sulla ricerca delle proprietà che permettono di distinguere le opere d’arte dai semplici oggetti, anche quando si somigliano tra loro al punto da non poter essere distinte le une dagli altri anche dalla più attenta perlustrazione dei nostri sensi. In altre parole – le sue – quando le “opere d’arte” sono “indiscernibili” dalle “mere cose reali”.

Per fortuna gli artefatti di cui intendo occuparmi sono molto meno problematici: si tratta di oggetti dichiaratamente indiscernibili1 tra loro a meno di un unico particolare, intenzionalmente creato e facilmente individuabile, che si ritrova su una sottoclasse di essi, mentre gli altri ne sono privi.

Una caratteristica singolare di questi oggetti è di essere tanto comuni nel mondo della fotografia quanto rari – anzi, per quanto ne so, introvabili – al di fuori delle sue colonne d’Ercole. Se ne possono vedere molti esemplari nei siti di vendita online di qualche galleria e di molte agenzie. Gli esemplari riprodotti provengono ad esempio dal sito web dell’agenzia Magnum.

Si tratta di stampe economiche di una famosissima immagine di un non meno celebre fotografo membro dell’agenzia. Sono due edizioni libere, e, a quanto si legge sul sito, l’unica differenza consiste nella presenza dell’autografo dell’autore.

Prima di proseguire una considerazione: il prezzo è in linea generale un indice infedele del valore, tanto è vero che quando si passa dal primo al secondo si usa introdurre il complemento “di mercato” a specificare la sovranità limitata della moneta come determinatrice di merito. D’altro canto, il prezzo di mercato ha l’indubbia qualità di essere un parametro in gran parte condiviso; può essere quindi comodo prenderlo in considerazione come un indice approssimativo ma qualitativamente congruente di un valore riconosciuto.

Ora, sottraendo con un’operazione imprecisa e qualunquista il primo oggetto dal secondo si arriva al calcolo immediato del prezzo – e quindi di un approssimativo valore condiviso – di entrambi i componenti dei nostri oggetti. La proposta commerciale di Magnum, che si può supporre in equilibrio con la domanda di stampe dei collezionisti dei fotografi dell’agenzia, pone qualche questione sul rapporto tra l’opera, il suo autore (almeno per quanto riguarda l’autografo) e il lettore/collezionista.

Possiamo iniziare con l’interrogarci sul rapporto tra l’immagine e la firma da un lato e il supporto materiale dall’altro. Detto diversamente: nel caso della copia autografata, il foglio appartiene all’immagine ed ospita la firma o, viceversa, dobbiamo pensare che la stampa sia una coinquilina e che la padrona del fogli sia la firma? Per chiarire il punto, che, mi rendo conto, rischia di apparire un po’ ozioso, pongo la questione in altri termini: supponiamo che io abbia trovato tra le carte di un vecchio zio un pezzo di carta con un autografo originale di Steve McCurry; e supponiamo che acquisti una copia non firmata del poster in figura. Se chiudo i due oggetti in una busta di plastica e li metto in vendita come lotto unico, il prezzo sarà quello della copia autografata?

Nel caso si pensi che il prezzo dell’insieme possa essere almeno uguale a quello della stampa autografata, si potrebbe dire che l’autografo dell’Autore valga a prescindere dalla stampa a cui si accompagna. Detto con le espressioni usate sopra, il foglio sarebbe il supporto della firma, e l’immagine sarebbe semplicemente “ospitata” su di esso.

Se invece questo accostamento a posteriori è considerato meno prezioso della copia firmata allora si sta attribuendo alla firma sulla stampa un significato che merita di essere indagato.

Per procedere con più chiarezza consideriamo un’altra coppia di fotografie, sempre tratte dal negozio online di Magnum.

Come si vede, le edizioni a confronto in questa seconda immagine sono caratterizzate da una tiratura limitata. La pagina di specifica indica che la prima tiratura è di cento copie mentre la seconda, quella autografata, è limitata a cinquanta esemplari.

La dissimmetria rende il calcolo del prezzo della firma più complesso del caso precedente, ma questo non è un elemento che qui interessa più di tanto. Piuttosto, continuando il ragionamento fatto a proposito dell’autografo trovato nel cassetto, supponiamo che l’agenzia abbia preparato cinquanta etichette e le abbia spedite all’autore mentre nei suoi laboratori si provvede alla stampa dei poster. L’autore firma le etichette e le rispedisce all’agenzia che provvede a incollarle sulle stampe.

Qui l’autografo è eseguito in vista della vendita della stampa; si tratta quindi di una circostanza diversa rispetto a quella immaginata prima, in cui la firma era totalmente scollegata dall’esemplare a cui veniva a forza unita. Come ulteriore sottocaso si può immaginare che l’agenzia abbia prestampato su ciascuna etichetta il numero della copia su cui sarà incollato. È possibile dire in uno o in entrambi i casi che siamo di fronte ad una stampa autografata?

Prima di abbandonare sbrigativamente il ragionamento per la sua manifesta vacuità, vale la pena di dare un’altra occhiata alla pagina delle specifiche del sito di Magnum.

Come si legge nella nota, sembra che ciò che ho descritto è quanto accade per le stampe “signed” di questi poster; la sola differenza è che l’etichetta arriva staccata dal poster (o dalla cornice) ed è all’acquirente che viene affidato l’incarico di incollarla alla stampa. Ad essere firmate e numerate sono quindi le etichette e non le stampe. C’è da chiedersi se questa circostanza – probabilmente dettata da opportunità logistiche – modifica il valore di questo articolo rispetto ad uno da esso indiscernibile a cui l’autore avesse direttamente apposto la sua firma.

Insomma il viaggio di una firma dalla mano alla stampa è più complesso di quello che può apparire a prima vista. Ma a questo punto è forse il caso di chiedersi cosa ci fa un autografo su una stampa e quali sono le conseguenze del fatto che alcune stampe lo posseggono e altre no.

Partiamo dal versante dell’autore: per lui Innanzi tutto la firma potrebbe essere un mezzo dal sapore leggermente retrò per definire la paternità dell’opera. Una premura che ovviamente ha senso solo per alcune immagini: che il ritratto della Afghan Girl sia di Steve McCurry è una circostanza che nessuna firma può avallare o mettere in dubbio. Autori di fotografie meno famose potrebbero trarre giovamento da questa pratica che, per il collezionista, potrebbe corrispondere ad una sorta di certificazione dell’autenticità dell’esemplare in suo possesso. Sempre che, nel caso di un processo caratterizzato da una serialità di tipo forte2 – ancor più nel caso della fotografia digitale – si raggiunga un accezione condivisa del concetto di autenticità.

Potrebbe infatti aver senso porsi una domanda: una firma autentica di un falso autore trasforma la stampa in un falso? E una firma falsa di un autore vero? La risposta a queste domande credo dipenda dalla firma. La mia firma su una stampa di una fotografia di Steve McCurry al più imbratta l’esemplare ma probabilmente non ne altera lo stato di autenticità. A rigor di logica è anche ciò che farebbe una firma di McCurry sulla stampa di una foto non sua, anche se in questo caso qualcuno (probabilmente non il vero autore) potrebbe pensare che l’immagine anonima risulti nobilitata dall’iniziativa. Nel caso invece in cui un abile falsario aggiunga una falsa firma di McCurry sulla stampa di una foto anonima i dubbi sarebbero molti meno. Si tratterebbe di un falso, reso ancor più odioso da un sotteso tentativo fraudolento. Più interessante è l’ultimo caso: una falsa firma di McCurry apposta su una stampa di una sua fotografia. A prima vista anche questo dovrebbe essere assimilato al caso di una stampa “imbrattata” ma se la stampa prima dell’intervento era quella appartenente alla sottoclasse di sinistra in figura 1, quella “autografata” ambisce ad entrare furtivamente in quella di destra e quindi ad una quotazione superiore. Quindi possiamo dire che se rispetto agli esemplari della prima sottoclasse si tratta di un autentico esemplare imbrattato, rispetto a quelli della sottoclasse di destra si tratta sicuramente di un falso.

In Morte nel Coro3, Giles Armitage decide di commissionare ad un falsario la riproduzione di un ritratto a pastello di Johann Sebastian Bach opera di Elias Gottlob Haussmann, per vendere l’originale all’insaputa della moglie, che dell’opera è la legittima proprietaria. Ovviamente il progetto dà il via ad una sanguinosa catena di delitti tipica della serie de L’Ispettore Barnaby. In un clima più leggero, Mr. Bean4, indolente e maldestro custode di museo passato sé nolente per esperto d’arte, sostituisce con un poster del bookshop opportunamente trattato l’originale de La Madre di James Whistler, da lui stesso rovinato con uno starnuto. Sono entrambi casi di falsificazione operata tramite sostituzione dell’originale con una copia indiscernibile.

Non so quanto questa procedura sia comune nel mondo reale, ma credo che nel caso della fotografia sia difficilmente realizzabile e di dubbia utilità. La Afghan Girl non può più essere ritratta nelle condizioni in cui la ritrasse McCurry, così come la maggior parte delle fotografie che contengono persone o anche elementi di paesaggio. Qualche speranza in più per il falsario ci sarebbe per immagini effettuate in studio di oggetti inanimati, ma probabilmente un truffatore penserebbe in ogni caso a procurarsi una copia digitale sufficientemente accurata della foto originale.

Un’altra accezione della falsificazione artistica è rappresentata da errate attribuzioni assegnate in maniera più o meno fraudolenta ad opere realizzate à la manière de. Come ad esempio accade in un altro episodio de L’Ispettore Barnaby5, in cui Matilda Simms, mette di tanto in tanto in circolazione presunte tele del pittore David Hogdson (un pittore della prima metà del XIX secolo) opera in realtà di suo padre, il defunto pittore Arnold Simms. Qualcosa di simile potrebbe avvenire in fotografia, ma non credo che operazioni di questo tipo porterebbero molto lontano, a meno di non approfittare della improvvisa popolarità di un autore del passato appena riscoperto. Posso immaginare presunti ritrovamenti di negativi di Vivian Meier custoditi al di fuori del famoso box in cui il suo corpus è stato ritrovato da John Maloof, ma una foto “ritrovata” di Henri Cartier-Bresson o Luigi Ghirri mi sembra un evento improbabile, dato il lavoro di archiviazione e la notorietà degli autori.

Naturalmente per ragioni facilmente comprensibili non consiglierei ad un imbroglione di prendere in considerazione per la sua truffa autori viventi – come il nostro “autore esemplare” McCurry. Potrei firmare con il mio nome centinaia di ritratti della Afghan Girl ma non credo che riuscirei a venderne una sola come mia creazione originale. L’attribuzione a Steve McCurry è un fatto troppo noto perché una qualsiasi firma possa confermarlo o metterlo in dubbio. Naturalmente il viceversa è più pericoloso: potrei prendere un ritratto da me realizzato durante un mio soggiorno in un villaggio vacanze a Phuket e spacciarla per una fotografia di McCurry falsificando la sua firma. Ammesso che la mia falsificazione sia credibile, la truffa potrebbe comunque essere scoperta con una verifica negli archivi dell’Autore. Non a caso, più che la firma ad assicurare l’autenticità dell’esemplare sono la disponibilità di un certificato (opportunamente dotato di dispositivi di verifica della sua autenticità) e una registrazione fedele e completa della sua storia passata. Più che garantire la provenienza di ciò su cui è appoggiata, la principale funzione della firma sembra essere per così dire l’estrazione dell’esemplare segnato dal potenzialmente infinito flusso di repliche messe a disposizione dalla serialità forte del mezzo. Come dimostra il negozio online della Magnum, la firma è un elemento di esclusività il cui valore di mercato è superiore a quello del numero di tiratura di un’edizione limitata, anche se il sito dell’agenzia non permette di confrontare i prezzi di una stampa della stessa qualità in edizione limitata senza firma e in edizione libera firmata.

Insomma l’esaltazione dell’immagine nella sua dimensione ideale, indipendente dal supporto, la virtualizzazione introdotta dalla condivisione delle fotografie digitali, sembra non aver ancora trovato una sua strada nel mondo del collezionismo, che pare invece essere ancora attratto da caratteristiche di esclusività o almeno da garanzie di proliferazione limitata degli esemplari. Sarebbe il caso di indagare quanto una limitazione forzata nel numero delle copie circolanti, sogno e incubo degli autori e dei collezionisti, sia in linea con l’ontologia del medium fotografico, ma l’analisi ci allontanerebbe dal centro delle nostre riflessioni. Nel frattempo una svolta verso la valorizzazione della dimensione virtuale delle immagini anche nel collezionismo potrebbe essere rappresentata dall’avvento degli NFT, che offrono il diritto di proprietà dell’immagine a collezionisti che sono dichiaratamente indifferenti alla proliferazione delle repliche, sia in forma digitale sia su supporti fisici di tipo più convenzionale. Si può dire che ciò che un NFT mette a disposizione è la proprietà dell’immagine virtuale – anche se qualcuno pensa che ciò che è oggetto di scambio sia in realtà la “proprietà virtuale dell’immagine” – che sta alle sue riproduzioni fisiche come l’immagine della Monna Lisa sta ai poster in vendita al bookshop del Louvre. Mi rendo conto che questa affermazione lascia in sospeso la questione della relazione tra l’immagine della Gioconda e la sua riproduzione appesa nella Salle des Etats del museo parigino. Ma la complessità dell’argomento credo meriti una riflessione a sé.

Anche perché l’ultima funzione della firma fotografica che resta da analizzare ci allontana ulteriormente dalla stabilizzazione a livello di mercato del concetto di ineffabilità dell’immagine come ente astratto: per il collezionista la firma rappresenta o può rappresentare la testimonianza del momento di un contatto concreto tra l’esemplare in suo possesso e l’Autore, contatto che “scalda” un medium freddo di suo e ancora di più raffreddato dalle attuali procedure di replica e distribuzione meccanica delle copie. È noto che l’attuale processo di produzione delle stampe può realizzarsi – e spesso si realizza – in assenza dell’autore; dopo una supervisione della preparazione delle copie per la stampa – molti dei fotografi più affermati si avvalgono dell’ausilio di collaboratori per la post-produzione dei propri scatti – la fase di stampa può virtualmente essere eseguita in un qualsiasi laboratorio professionale, dotato di dispositivi di stampa adeguati. Qualcosa del genere avviene anche con la fotografia a pellicola (e infatti il nome dello stampatore si affianca spesso a quello del fotografo) , ma il processo digitale sembra privare di ogni tepore umano la produzione di un oggetto che fatichiamo a pensare come artistico senza la fragranza del contatto con chi quel processo l’ha avviato e abbandonato subito dopo il primo.stadio.
Insomma sembra che il Lettore, che Roland Barthes e gli strutturalisti volevano far nascere dalle ceneri dell’Autore, non sia ancora pronto ad elaborare il suo lutto; e la firma, a cui si riconosce un valore “di mercato” superiore a quello della riproduzione dell’immagine, rappresenta un modo, mediato ma oggettivo, per rassicurarci che, da qualche parte, l’Autore ancora c’è.

  1. Uso il termine “indiscernibile” in una dimensione puramente sensoriale, più che nella accezione ontologica di Leibniz. Le proprietà cui si fa riferimento sono dunque quelle individuabili tramite l’indagine, magari puntigliosa, di sensi ben sviluppati[]
  2. Con l’espressione “serialità forte” intendo un processo in grado di originare da una stessa matrice un numero virtualmente infinito di copie tra loro indiscernibili.[]
  3. L’ispettore Barnaby – Morte nel Coro, ep. 7 st. 9, regia di S. Hellings, 1997[]
  4. Mr.Bean, L’ultima Catastrofe, regia di M. Smith, 1997[]
  5. L’Ispettore Barnaby – Il Taccuino Nero, ep. 2 st. 12, regia di P. Smith, 2009[]

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