Il documentarista parlerà dello straordinario valore testimoniale di questo scatto, rubato a rischio della vita nelle prime e già terribili fasi della guerra in Bosnia. Il semiologo noterà nell’immagine la connessione tra il dualismo plastico verticale-orizzontale e il suo significato simbolico più ancestrale, il contrasto tra vita e morte, e la connessione geometrica che i corpi a terra creano tra i soldati, simbolo di un sodalizio basato sulla violenza e sul terrore.

Ma esiste un’altra contrapposizione che chiama in causa chi guarda e lo interpella in maniera sconcertante. Il fulcro è nel miliziano di spalle al centro della foto. L’uomo è bloccato nel momento che precede il culmine di un gesto di orrenda crudeltà, il calcio sferrato al cadavere della donna che giace davanti a lui, e che forse egli stesso ha ucciso. E sicuramente aver fermato la scena nell’istante che immediatamente precede la conclusione dell’azione attribuisce alla figura del miliziano una componente dinamica, rafforzata dall’equilibrio instabile della sua posizione, che risalta rispetto alla staticità dei cadaveri e della posa degli altri due soldati.

Ma più terribile forse del gesto è l’eleganza con cui l’uomo si accinge a compierlo, atteggiandosi nel calcio come una mezzala sul punto di battere una punizione dal limite. Anche la posa da dandy con cui regge la sigaretta, il perfetto allineamento del mitra al braccio e di entrambi alla gamba di appoggio, nel momento in cui vengono colti da chi guarda lo denuncia nella sua capacità di separare la bellezza dalla morale, di subire il fascino della prima trascurando, nella contemplazione estetica, le leggi e i richiami ben più profondi ma non sempre altrettanto affascinanti della seconda.

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