Edward Steichen, Gloria Swanson, 1924
Philip Jones Griffith, Soldato visto attraverso uno scudo, 1973
Michael Wolf, Tokyo Compression, 2010
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Identico il dispositivo, analogo il metodo di applicazione, diversa l’intensità. La percezione dell’oggetto che più attira la nostra attenzione – il volto umano – ostacolata da un mezzo che si oppone al nostro sguardo. Una sovversione ottica che pone lo sfondo davanti alla figura e inevitabilmente chiama in azione le nostre facoltà di ricostruzione che, mentre cercano di superare queste barriere semitrasparenti, si trovano a fare i conti anche con i materiali con cui sono costruite. E c’è da scommettere che la nostra risposta estetica a queste fotografie nasce proprio dalla combinazione tra la sensazione legata alla grana dell’ostacolo, lo sforzo compiuto nel ridisegnare i visi ritratti e il grado di soddisfazione che ci procura il nostro tentativo di ripristinare l’intelligibilità dell’immagine. Il pizzo, che vela appena lo sguardo magnetico di Gloria Swanson; i graffi (molti a croce) e le tracce di colpi sullo scudo antisommossa che offuscano gli occhi del soldato lasciando l’espressione ad un paio di labbra appena inarcate; la condensa rigata di gocce, quasi lacrime davanti al viso a malapena riconoscibile.
Guardare un’immagine è un gioco che ci allena a stare al mondo, e in casi come questi le carte sono tutte sul tavolo; ciò nonostante è quasi impossibile resistere al loro invito a giocare ancora un’altra mano, a guardarle ancora una volta. Chissà, magari la forza di una fotografia è proprio questa qua.
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