Se fosse un pittore, il fotografo apparterrebbe alla categoria – non molto frequentata, per quanto se ne sa – di coloro che dipingono stando dietro la tela. La minuscola rivoluzione copernicana che ha accompagnato il passaggio dal cavalletto al treppiede potrebbe sembrare poca cosa, ma da Leibniz fino a Heisenberg c’è stato tempo sufficiente per capire quanto il “point de vue” non determini solo la visione del mondo ma ne influenzi la struttura stessa.

Per parlarne a proposito di questa vertiginosa immagine di Stefano Mirabella conviene però procedere con ordine. Già a prima vista la fotografia può essere iscritta alla famiglia di autoritratti in cui l’autore si lascia catturare dalla macchina della rappresentazione. Un genere che ha il suo paradigma nelle Meniñas di Diego Velasquez, opera con cui questa di Mirabella ha più di un punto di contatto: qui come sulla tela l’autore si mostra mentre scruta ciò che sta riprendendo e allo stesso tempo lo rende disponibile ai nostri occhi – in primo piano nella foto, attraverso un riflesso sul fondo della sala nel dipinto.

Anche qui il soggetto ripreso ricambia lo sguardo, che si aggiunge a quelli dei personaggi “fuori dal ritratto”: là l’infanta Margherita, la nana Maria Barbola e l’enigmatico personaggio sulla soglia in fondo; qui il ragazzo sulla sinistra, appoggiato alla porta dei veicolo. Ma rispetto al capolavoro di Velasquez questa fotografia si spinge ancora più a fondo nei labirinti della visione dato che, in luogo dei reali Filippo e Marianna, ciò che l’autore riprende in questo caso è a sua volta un’immagine, e per giunta un autoritratto.

Non che manchino gli esempi anche di questo tipo; qualcosa di simile si trova ad esempio nel geniale Triple Self-Portrait di Norman Rockwell, dove in un angolo dell’autoritratto in formazione sono appuntate a mo’ di ispirazione le riproduzioni di autoritratti di Rembrandt, Dürer, Van Gogh e Picasso. Ora, si sa che riprodurre un quadro nel quadro introduce una sorta di discorso indiretto che ha l’effetto di aumentare l’impressione di realtà della rappresentazione, come se la presenza di un’immagine nell’immagine “spingesse” quest’ultima verso il mondo dell’osservatore.

A questo punto, però, gli autoritratti di Velasquez e di Rockwell si fermano, bloccati dalla relazione spaziale tra autore e supporto tipica della pittura. La fotografia invece può andare oltre e Mirabella infatti procede facendo interagire la propria “immagine nell’immagine” (quella della Meier) con il livello narrativo che la contiene; tenendo la fotocamera nascosta in modo da lasciare in ombra il suo ruolo di produttore dell’immagine, il fotografo sembra fissare non il suo autoritratto, ma quello della Meier, la quale – grazie alla particolare relazione spaziale con la sua “tela”, racchiusa nella Rolleiflex – pare a sua volta essere sul punto di fotografare lui, sfondando, per così dire, il gioco di scatole cinesi che la pittura è costretta a lasciar chiuse; si crea insomma un cortocircuito tra i piani del racconto che ricorda quelli delle conversazioni tra il disincantato personaggio di Diderot e il suo ingenuo e confuso padrone.

L’effetto di “doppio livello enunciativo” tipico delle immagini che contengono immagini, si accartoccia su se stesso; lo specchio – metafora dell’autoritratto – diventa una membrana che la narrazione attraversa in entrambi i sensi, incrociando passato e presente sul riverbero che l’architettura dell’eclettico palazzone newyorkese alle spalle della Maier trova nella facciata di Palazzo Massimo che traspare tra i finestrini del veicolo.

Insomma un’immagine che il gesuita Balthazar Gracian probabilmente avrebbe definito “conceptuosa”; ed è singolare che essa non sia stata sintetizzata in studio ma prelevata dal fiume del tempo che scorreva sotto il sole di Roma, a due passi dalla Stazione Termini. Qui, in un centesimo di secondo si sono dati appuntamento alcuni dei temi fondamentali della nostra cultura visuale, ed averli visti e prelevati è un atto di poiesis e tekné che la dice lunga sulla posizione che ancora derubrica la fotografia “en plein air” ad una sottocategoria del trovarobato ottico.

D. Velasquez, Las Meninas, 1656
N. Rockwell, Triple-portrait, 1960

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