Abbastanza comprensibile che questa immagine porti alla mente il famoso haiku di Matsuo Basho1, come è accaduto a Gérard Macé nell’introduzione al volume della collana “Foto Notes” dedicato a Pentti Sammallahti. A ben vedere si tratta di un accostamento basato più su una generica suggestione che su vere e proprie corrispondenze espressive; ma confrontare un testo con uno che in un modo o nell’altro lo richiama può fornire in ogni caso degli spunti di riflessione interessanti.

Qui ad esempio può essere utile partire dagli elementi che distinguono il testo verbale da quello visivo e viceversa: lo sguardo e il tuffo. Cominciamo dal secondo; dal punto di vista puramente formale, si tratta di una componente figurativa che inscrive nella lirica una incisiva componente acustica, che la foto di Sammallahti non evoca; anzi l’atmosfera creata dall’autore finlandese colpisce per il silenzio che riesce a comunicare, grazie tra l’altro alla resa della perfetta immobilità dello specchio d’acqua, restituito in un’uniformità superiore a quella del cielo stesso.

In più il suono che il poeta convoca per descrivere l’azione è per forza di cose associato al suo momento terminativo, che in pratica coincide con la scomparsa del soggetto sotto il pelo dell’acqua. A sua volta questa si traduce in una modalità attiva dello sguardo – quella del soggetto – che si esprime in un “voler non guardare” e in una modalità passiva – cioè l’atteggiamento del soggetto nei confronti dello sguardo dell’osservatore – che è quella del “voler non essere guardato”. In altre parole siamo di fronte alla chiusura totale del soggetto rispetto a chi lo osserva, una modalità a cui si deve gran parte del senso di solitudine che emana dalla lirica.

Nel caso della fotografia, invece, la modalità passiva può essere assimilata ad un “non voler essere guardato”, data la posizione del rospo quasi completamente immerso, ma comunque individuabile; ma è la modalità attiva, che esprime invece un “voler guardare” – dato dallo sguardo dell’animale che sembra puntare direttamente verso l’obiettivo – a costituire il baricentro espressivo della foto, dato che chiama in causa direttamente l’osservatore e quindi coinvolge lo spettatore che lo incarna.

Lo sguardo del rospo che scruta l’osservatore giustifica la posizione dell’animale, guardingo ma evidentemente interessato, e allo stesso tempo attiva la funzione di quel sole livido, posto da Sammallahti in una posizione compositivamente impeccabile, che si riflette appena sulla sponda. Una massa di luce pura e pallida che, mentre abilita alla visione, genera da quello stesso sguardo il punto di minore visibilità dell’intero fotogramma, l’ombra della testa del soggetto stesso.

A differenza del testo letterario – che si può leggere come una ipostasi del rifiuto del contatto visivo e del senso di isolamento che ne deriva – l’immagine ci parla allora della nostra invincibile pulsione a guardare e della simmetrica tendenza del mondo a renderci oggetto del proprio sguardo, suscitando in noi la circospezione della doppia modalità “voler guardare/non voler essere guardati”; e allo stesso tempo ci presenta in un linguaggio di delicata poesia una verità fisica che il senso comune fa fatica ad accettare: il nostro stesso sguardo (o la possibilità di esercitare l’atto di visione) genera una alterazione nel mondo e modifica ciò che gli altri possono guardare. Ciò che Werner Karl Heisenberg ha dimostrato novantacinque anni fa lo vediamo qui nello sguardo del rospo che “consuma” la luce, e ci impedisce di vedere ciò a cui sovrappone la sua ombra. Perché ogni sguardo, anche quello più furtivo, non è senza conseguenze.

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  1. Sullo stagno morto/il rumore di una rana/che s’immerge. M. Basho, 1681ca[]

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