
Sospetto che lo scopo antropologico della fotografia sia tranquillizzare chi la fa e chi la vede che la realtà sia dotata di una qualche forma di struttura percepibile. Non a caso, se si retrodata la sua nascita alla diffusione seicentesca della camera obscura, è impossibile non notare che la necessità di uno strumento che permetta di osservare il mondo alla ricerca di una sua rappresentabilità coincide proprio con l’epoca il cui l’uomo occidentale prende sconcertante coscienza che la varietà non è una coperta stesa sulla realtà dalle cose. Non c’è nessuna geometria sottesa alle imperfezioni della materia; dovunque, dall’immensamente distante all’infinitamente vicino, c’è una variabilità che sembra sottrarsi alle nostre capacità di organizzare il mondo, e quindi di non farci sopraffare dalla sua imprevedibilità.
Non è solo desiderio di conoscenza; la necessità di controllo nasce dal tipo di rapporto che l’essere umano è costretto ad instaurare con l’ambiente che immediatamente lo circonda. Creatura troppo debole per tessere con il mondo un rapporto puramente reattivo, l’uomo deve giocare di anticipo, capire per proteggersi e sopravvivere. Del resto la cacciata dal Paradiso Terrestre ha questa valenza simbolica: l’inapplicabilità per l’uomo del patto con la natura che tutti gli altri animali avevano stretto e a cui sono ancora fedeli.
Insomma, per l’essere umano, l’ambiente – e quindi anche la “natura” – è soprattutto un problema da risolvere. La postmodernità è il tempo in cui la fiducia nelle soluzioni trovate inizia a scricchiolare; e si affaccia una nostalgia per un passato edenico in cui l’armonia tra uomo e ambiente era, se non possibile, almeno negoziabile su basi meno aggressive.
Attraverso la foschia rodigina che si mischia alla polvere sollevata dalle marre, la fotografia di Berengo Gardin allinea contadine e alberi trovando per le prime spazio tra i secondi, in un’immagine che suggerisce equilibrio, sviluppata per bande orizzontali in cui la figura umana e le piante di gelso articolano le due fasce centrali incastrandosi senza sovrapporsi, simbolo di una convivenza tra uomo e territorio basata su un armonico rispetto, mentre sullo sfondo le sagome dei due olmi sembrano assegnare all’elemento vegetale (e quindi “naturale”) una supremazia delicata, benevola ed evanescente.
L’immagine riporta al tempo in cui il controllo che l’uomo esercitava sull’ambiente era segnato da uno sforzo che si rinnovava ogni giorno, e che nella stessa fatica trovava la sua ragione e la sua giustificazione. In un mondo che stava per svegliarsi dal sogno del boom, la fotografia di Gardin si configura come una nostalgia per un presente che inesorabilmente scivola verso un irrecuperabile passato.